Arturo Sergio (nella foto), lucano verace, gestisce insieme al fratello minore Antonio, lo storico Caffè Gambrinus di piazza Trieste e Trento.
«Sono cresciuto in un ambiente artistico perché ho studiato scenografia all’Accademia delle Belle Arti: volevo fare l’artista. Mio padre, Michele, aveva il Bar Tourist a Santa Lucia e mi affittò una stanza lì vicino dove misi uno studio di pittura e scenografia. Purtroppo l’ispirazione non mi veniva e ripiegai sulla pittura commerciale ».
Cioè?
«Copiavo i quadri di pittori famosi, ne facevo multipli e li vendevo. Ben presto, però, mi stancai anche di questo perché era un’attività che non mi dava soddisfazioni. Non c’era nulla di creativo in questo lavoro e mi sentivo di rubare cose fatte da altri. Siamo ben lontani dai “falsi d’autore”».
E che cosa fece?
«Mia sorella si era fidanzata con l’attuale marito che era rientrato dalla Svizzera. Mio padre per dare una sistemazione alla giovane coppia rilevò il Bar Brasiliano nella Galleria Umberto I. Come diceva il compianto Gerardo Marotta, era la galleria della miseria perché si vendevano solo caffè. Cominciai a lavorare con loro».
Si inventò una simpatica e originale iniziativa per incrementare gli incassi…
«“Il chicco d’oro”. Era un gadget d’oro che vinceva ogni cliente che raggiungeva mille tagliandini che corrispondevano a mille caffè comprati. La domenica riempivamo il locale di sedie e facevamo vedere le partite di calcio trasmesse in televisione».
A don Michele, però, il Bar Tourist non bastava…
«Il suo sogno era quello di rilevare il Gambrinus. Ne conosceva la storia e le avverse vicende fin da quando fu fondato nel 1860 dall’imprenditore Vincenzo Apuzzo. Vederlo in uno stato di decadimento, ridotto a due piccoli locali, quelli che affacciano su via Chiaia, in quanto la maggior parte era occupata dal Banco di Napoli, lo rattristava molto».
Quando ci riuscì?
«Dopo quattro anni di lavoro al Bar Brasiliano, ma la strada fu tutta in salita, piena di ostacoli e di difficoltà di ogni genere».
Ci racconta?
«Ai tempi di Apuzzo il locale si chiamava Gran Caffè e riscosse un grande successo al punto da ottenere il riconoscimento per decreto di “Fornitore della Real Casa”. Quando l’imprenditore fallì, lo rilevò Mariano Vacca. Era il proprietario di un elegante chalet nella Villa Comunale, un padiglione con stucchi e specchiere frequentato dagli aristocratici e dai letterati napoletani. Affidò la restaurazione degli interni del Gran Caffè all’architetto Antonio Curri, che aveva realizzato la Galleria Umberto I. Per gli affreschi l’architetto chiamò gli impressionisti napoletani. Tra questi Vincenzo Migliaro, Vincenzo Irolli e Vincenzo Caprile. Il loro intervento rese storico il locale e impedì che potesse essere demolito nel processo di risanamento che la città stava attraversando».
Vacca gli cambiò anche il nome…
«Lo chiamò Gambrinus, che deriva dal mitologico re delle Fiandre Joannus Primus considerato il patrono della birra, in onore dell’impertore di Germania Gugliemo II che venne in visita a Napoli nel 1896. I suoi soldati cercavano la birra e Vacca la procurò per accontentarli».
Si dice che il Gambrinus ha segnato anche il successo del caffè espresso e la nascita del caffè sospeso?
«L’“epresso” vide la luce quando, agli inizi del Novecento, fu costruita la macchina per il caffè “Pavoni”, che prese il nome dal suo inventore. Troneggiava al centro della saletta tonda. Dopo poco nacque il “caffè sospeso”, che consiste nel lasciare un caffè pagato per le persone povere che non possono acquistarlo e concedersi il piacere di un caffè. È una tradizione che manteniamo ben viva ».
Quando iniziò il declino?
«Nel 1938 con un’ordinaza fascista il Gambrinus venne chiuso e fu riaperto molto tempo dopo».
Ritorniamo al patron Michele, a lei e suo fratello?
«Rilevammo il Bar dai tre fratelli Castaldo, il cui nonno era proprietario, tra l’altro, del famoso “Pizzicato” in piazza Municipio. L’inizio, come ho detto, fu durissimo. Entravano poche persone anche perché a piazza Trieste e Trento c’era l’accorsato Bar del Sole. Poi nel 1973 l’epidemia di colera fu una mazzata imprevista e imprevedibile. Tirammo avanti grazie alle prime colf eritree che il giovedì e la domenica si incontravano con i loro fidanzati da noi e ci garantivano, almeno per due giorni, un minimo di incassi».
Grazie alla comunità eritrea, quindi, iniziò la lenta risalita?
«È proprio così. Nel 1977 rinnovammo i due locali e gli avventori cominciarono ad aumentare».
Quando iniziò la battaglia legale contro il Banco di Napoli per la restituzione dei locali occupati?
«I prodromi si ebbero negli anni ’60, quando si verificò un episodio molto spiavevole. Il prefetto dell’epoca notò che la sua abitazione al primo piano nobile era servita da un ascensore usata anche per accedere agli uffici. Si accorse che le porte dell’office del Gambrinus si aprivano sul cortile della sua abitazione. Su sua richiesta la Provincia, proprietaria dell’intero immobile, gli diede quella “pertinenza” con l’impegno che il Banco di Napoli cedesse al Gambrinus parte dei locali che occupava. La Sovrintendenza si oppose. Fu l’inizio della vertenza che i Castaldo iniziarono contro la Sovrintendenza e il Banco».
La famiglia Sergio, quindi, subentrò ai Castaldo nel contenzioso?
«Sì. Dopo molti anni vincemmo la causa e entrammo in possesso anche di parte dei locali occupati dalla banca. Aprimmo su piazza Trieste e Trento e dopo una seconda causa ottenemmo anche l’attuale Sala Michele Sergio, che porta il nome di nostro padre. Si aggiunse alla Sala Principe Antonio de Curtis, in arte Totò, dove c’è la caffetteria e alla Sala Salvatore Di Giacomo dove c’è la gelateria ».
E la sala rotonda?
«La dedicheremo al professore Amato Lamberti in riconoscenza per tutto ciò che fece per noi e per il Gambrinus quando era assessore e successivamente presidente della Provincia».
Quale crede sia stato il suo maggiore contributo nella rinascita dello storico bar?
«Il rispetto degli insegnamenti di nostro padre e continuare nella tradizione del locale. Per papà ogni persona aveva il suo valore e noi trattiamo sempre tutti con lo stesso garbo e lo stesso stile, quello che ci caratterizza e che ci viene riconosciuto. In queste sale si è sposato Eduardo De Filippo con la prima moglie che era americana. Sono venuti personaggi del calibro di Spadolini, Berlinguer, Cossiga con le sue prime picconate, Ciampi che ha speso i suoi primi euro. Era scaramantico e gli regalai due cornicielli e fece vedere che nel suo taschino aveva dei piccoli apotropaici. E ancora Napolitano e Mattarella, ma anche “il vicino della porta accanto”».
Qual è il suo ricordo più bello?
«Quando venne la signora Merkel con il marito. Era un venerdì santo. Li feci sedere su un divanetto rosso. Si interessarono molto alla storia del Gambrinus e in segno di affetto regalai loro due tazzine. Vollero per forza pagare la consumazione».
Quello più triste?
«Il momento più difficile e scoraggiante è stato quando è morto nostro padre. Non ha potuto vedere il Gambrinus come è ora, ma già si raccomandava ad Amato Lamberti. Un giorno gli disse: “professore voi siete un uomo onesto”. Ha fatto veramente molto per il Gambrinus perché, nonostante fosse salernitano, amava molto Napoli ».
Riuscite a soddisfare i gusti di una clientela internazionale?
«Il Gambrinus è un caffè europeo per cui i nostri clienti devono trovare le cose che sono nei bar di Vienna, Parigi, Londra, Berlino e così via. Mi sono dedicato perciò allo studio e alla ricerca dei prodotti europei più richiesti perché lo straniero che viene da noi deve sentirsi quanto più possibile a casa propria».
Ha una particolare attenzione per gli eventi culturali?
«È un aspetto che io e mio fratello Antonio curiamo particolarmente. Ricordo che in un concerto mia figlia Carolina cantò per il presidente del Portogallo».
Il caffè Gambriunus rientra fra i primi dieci Caffè d’Italia…
«Facciamo anche parte dell’Associazione Locali Storici d’Italia. Portiamo in giro per l’Italia e all’estero il suo nome come simbolo della città».
Se ha un sogno, quale è?
«Aprire un Caffè Gambrinus a New York che abbia le stesse caratteristiche di quello di Napoli. Non lo abbiamo ancora fatto perché occorre costruire laboratori per la produzione della nostra pasticceria che è quella tipica napoletana. Poi c’è la parte ristorazione. Tutto questo comporta anche un impegno di maestranze».
Si sta affacciando la terza generazione della famiglia…
«Ci sono mio figlio Michele, laureato in giurisprudenza e abilitato all’esercizio della professione di avvocato, e Massimiliano, figlio di mia sorella, laureato in economia e commercio. Sono più attivi di noi. Si sono inseriti e coltivano molto l’immagine e la comunicazione nel rispetto massimo della clientela. Probabilmente realizzeranno loro il sogno di New York».
Le è costato rinunciare all’attività artistica?
«Volevo fare architettura e un po’ di rimpiano mi è rimasto. Il lavoro della caffetteria, però, è un momento di socializzazione forte e questo mi gratifica al massimo. La mia vocazione artistica comunque l’ho mantenuta e la estrinseco curando la manutenzione degli affreschi e dei quadri del nostro Caffè Gambrinus».